domenica 8 luglio 2012

La vera storia di Chico Forti di Pino Loperfido




UN TRENTINO È RINCHIUSO DA DODICI ANNI IN UNA PRIGIONE DELLO STATO DELLA FLORIDA, PERCHÉ ACCUSATO DI ESSERE IL MANDANTE DI UN OMICIDIO. IL PROCESSO CHE LO HA CONDOTTO DIETRO ALLE SBARRE, OLTRE AD ESSERE STATO VIZIATO DA NUMEROSE VIOLAZIONI, SI È CONCLUSO DOPO UN’IPOTESI RICOSTRUTTIVA FORTEMENTE FALSATA, SENZA CHE L’ACCUSA PRESENTASSE ALCUN INDIZIO, nessun testimone, ALCUNA PROVA LEGALE O LOGICA E, SOPRATTUTTO, SENZA UN MOVENTE. Adesso si tenta la via politica (a Frattini piacendo...)

La notizia ha imperversato sui media per settimane: Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono liberi. Hip hip Hurrà! L’americana ha già preso il volo (in tutti i sensi), il pugliese – per qualcuno – farà altrettanto nelle prossime settimane, prima che la Cassazione metta nel frullatore nuovamente il caso della morte di Meredith Kirchner. L’America è la patria della libertà, là i due, anche in caso di un ribaltamento della sentenza di Perugia, si potrebbero ritenere al sicuro. Chi invece negli States al sicuro non è proprio per niente è Enrico Forti, per tutti Chico, il cittadino italiano imprigionato nel 1999 e condannato al carcere a vita nel 2000, senza uno straccio di prova o indizi degni di essere definiti tali. Nella Patria della libertà, che la libertà ha preso a emblema da centinaia di anni, che da decenni tuona contro stati canaglia, dittatori e diritti umani violati, a ben guardare di libero c’è meno di quanto si possa credere. D’altra parte non è un dettaglio il fatto che gli U.S.A. siano uno dei pochi Paesi del mondo in cui ancora vige (a grande richiesta) la pena di morte, una delle “moderne democrazie” che con non poca presunzione, periodicamente, stila classifiche dei buoni e dei cattivi in cui, sovente, la cattiveria appare direttamente proporzionale al numero di barili di petrolio lì prodotti. D’altra parte, un Paese il cui stesso Presidente rappresenta una contraddizione vivente (Premio Nobel per la Pace e war addicted allo stesso tempo) non può che essere il luogo delle contraddizioni.
Il fatto che vogliamo raccontare è molto semplice. Un italiano è da dodici anni rinchiuso in una prigione dello stato della Florida, perché accusato di essere il mandante di un omicidio. Il processo che lo ha condotto dietro alle sbarre oltre ad essere stato viziato da numerose violazioni (che più avanti proveremo ad illustrare) si è concluso dopo un’ipotesi ricostruttiva fortemente falsata, senza che l’accusa presentasse alcun indizio, alcuna prova legale o logica e, soprattutto, senza un movente.
FEBBRAIO 1998, U.S.A. - TRENTINO: 2-0
È curioso, ma nella prima metà del febbraio del 1998, per ben due volte, una piccola provincia autonoma italiana posta a nordest, il Trentino, è costretta ad incrociare i propri destini con quelli degli Stati Uniti d’America. La prima il 3 febbraio, quando Richard Ashby e la sua allegra brigata tenta di passare sotto i cavi della funivia del Cermis (ahilui, tira giù una cabina con venti esseri umani, ammazzandoli). La seconda, il 15 febbraio successivo, quando l’imprenditore Enrico Forti viene coinvolto, a Miami, Florida, nel caso “Pike”. Stranieri in territorio italiano, i primi; italiano in territorio straniero, il secondo. Peccato però che la proprietà commutativa funzioni solo con i numeri e non con i casi internazionali incrociati.
I piloti americani non vengono nemmeno giudicati da un Tribunale italiano, ma trasportati d’urgenza nel Paese delle libertà per essere “giudicati” oltreoceano. Sappiamo com’è andata a finire… Enrico Forti, invece, non solo viene giudicato da un Tribunale americano, ma il processo a cui viene sottoposto è degno di un racconto di Franz Kafka o di una pièce di Friedrich Dürrenmatt. Al di là dell’innocenza o della colpevolezza del trentino, se il lettore si prendesse la briga di leggere l’arringa finale di Reid Rubin, il pubblico ministero, potrebbe facilmente farsi un’idea del carattere farsesco di questo processo (ci sono dei punti in cui diventa difficile trattenere un sorriso), e al contempo risulterebbe difficile non tradire un fastidioso senso di impotenza.
Perché, vedete, uno va in America e dice: “Che bello, vado negli States, mangiatevi il fegato o voi che restate, ecc.”. Ma non si rende mica conto delle disavventure incontro alle quali rischia di finire durante la permanenza laggiù, se poco poco si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Si fa un gran parlare delle carceri turche o dei metodi della polizia penitenziaria russa: beh, dopo aver letto questa storia, forse anche le carceri U.S.A. diverranno qualcosa di più reale di un film con Clint Eastwood (“Fuga da Alcatraz”) o con Tom Selleck (“Un uomo innocente”).
E a proposito di film. Ce n’è un terzo che vogliamo indicare. Si tratta di “Hurricane – Il grido dell’innocenza”, interpretato da un grande Denzel Washington. È la storia del pugile Rubin Carter, condannato per triplice omicidio a tre ergastoli nel 1966, quindi scarcerato e assolto (udite, udite…) nel 1985, ovvero dopo diciannove anni di ingiusta detenzione. La vicenda di “Hurricane” Carter presenta diverse affinità con la storia di Enrico Forti che adesso ci accingiamo a raccontare.
 
CHI È ENRICO “CHICO” FORTI
Imprenditore, campione di windsurf, filmaker, produttore: come traspare da questo piccolo elenco, la personalità di Enrico Forti è varia e improntata all’eclettismo. Nato nel 1959, Forti si accorge molto presto di quanto stretta gli vada la provincia trentina. Inizia a girare l’Italia e il mondo. Diventa uno dei pionieri del windsurf, ma si dimostra abile anche in altre discipline sportive cosiddette “estreme”. Come se non bastasse, nel 1990, vince alcune decine di milioni di lire al quiz televisivo “Telemike”. I soldi sono la spinta definitiva verso il “sogno americano”, il Paese della Libertà che per lui, qualche anno più tardi, si rivelerà essere il Paese della Prigionia.
Una volta in America (California, prima, Miami poi) Forti moltiplica le proprie attività, i progetti, le iniziative. Una mente vulcanica, un uomo che proprio non riesce a stare fermo e a smettere di sorridere: un’innata positività che tra l’altro si è rivelata fondamentale durante questi dodici lunghissimi anni di detenzione.
Mette su una società di produzione cinematografica che realizza filmati di sport estremi che poi verranno acquistati dalla ESPN (“Hang Loose”, 100 puntate...), la maggiore rete televisiva sportiva americana. Disegna tavole e accessori per il windsurf, orologi sportivi, gestisce un ristorante, crea una casa cosmetica che distribuisce maschere di bellezza anti-invecchiamento e, tanto per gradire, prende anche il brevetto di pilota e acquista un piccolo Cessna per le riprese aeree. In America, Enrico Forti, non se ne sta certo con le mani in mano: questo nemmeno un funambolo dell’oratoria come Reid Rubin avrebbe potuto metterlo in discussione.
TUTTO HA INIZIO IN QUELL’HOTEL DI IBIZA
Per narrare questa incredibile vicenda dobbiamo partire da Ibiza, la piccola isola delle Baleari dove, negli anni Ottanta, l’avventuriero inglese Anthony Pike costruisce un piccolo hotel, aiutato da suo figlio Dale. Il Pike’s Hotel diventa in breve tempo un punto di riferimento per personaggi del jet-set internazionale dell’epoca, tra cui Boy George e George Michael che, con gli Wham ci gira addirittura il videoclip della canzone “Club Tropicana”. Il Pike’s Hotel è frequentato anche da un faccendiere tedesco di nome Thomas Knott che si spaccia per campione professionista di tennis (ha solo vinto qualche partita nei campionati tedeschi), in realtà è un campione professionista di truffe miliardarie nel campo delle multiproprietà. Knott si presenta spesso ad Ibiza in compagnia del connazionale Siegfried Axtmann che è titolare di una piccola compagnia aerea a Norinberga.
Qualche anno dopo, siamo nel 1993, per costoro la fortuna comincia a girare. Anthony Pike contrae il virus dell’Aids, dopo aver cacciato malamente il figlio Dale, che si rifugerà in Malesia. Thomas Knott viene arrestato in Germania e condannato a sei anni di reclusione per truffa. Quattro anni dopo, viene messo in libertà vigilata, ma fugge negli Stati Uniti, dove viene introdotto dall’amico Axtmann nel residence esclusivo di Williams Island, Miami. Occupa un appartamento sopra il quale abita Enrico Forti.
Alla fine del 1996, Dale Pike supplica il padre di dargli una mano perché – a quanto pare – in Malesia si è cacciato in qualche grosso guaio. Anthony vola laggiù, ma la malattia si aggrava improvvisamente. Viene portato in Australia da Dale, a Sydney, dove vive l’altro figlio, Bradley. Anthony è in fin di vita e i medici gli danno pochi giorni di vita, se non fosse che la moglie Vera non è di questo parere, anzi, vola in Australia, preleva il marito e lo porta in Spagna dove viene curato in maniera alternativa. In poco tempo l’uomo si rimette miracolosamente in sesto.
I MISTERI DEL CASO “Cunanan”
Aperta parentesi: il 15 luglio del 1997, a Miami Beach, sulla Ocean Drive, viene assassinato lo stilista italiano Gianni Versace. Il fatto è clamoroso, ne parla tutto il mondo, figuriamoci il quartiere. Pare che l’assassino sia tale Andrew Cunanan, suicidatosi su una casa galleggiante durante un “assedio” della polizia di Miami. In seguito a questo drammatico episodio, Thomas Knott confida a Enrico Forti di conoscere l’intermediario di quella house-boat. Guarda te la coincidenza, si tratta di Siegfried Axtmann, il suo concittadino. Enrico, che è filmaker e sta pensando di girare un documentario sulla vicenda Cunanan-Versace, approfitta del contatto per acquistare i diritti sulla casa a scopo giornalistico. È lo stesso Knott a collaborare alle riprese del docufilm “Il sorriso della Medusa”, trasmesso successivamente in Italia e in Francia. Gli indizi e le testimonianze raccolte in esso avvalorano l’ipotesi che non sia stato Cunanan a sparare a Versace e la morte dello stilista sia da ricollegare a un movente clamoroso, che porta dritti dritti in ambienti della politica e della malavita. Insomma, diciamolo francamente, “Il sorriso della Medusa” sputtana allegramente la polizia di Miami che – sempre secondo il racconto dell’inchiesta – avrebbe inscenato un assalto in stile Fort Alamo solo per “suicidare” un uomo, in realtà già morto. D’altra parte alcuni strani episodi avvenuti subito dopo sembrano avvalorare la tesi del complotto. Cunanan viene portato via in un sacco nero e cremato in poche ore. La casa galleggiante affonda misteriosamente poco tempo dopo. Acquistato e trasmesso il 25 settembre da RaiTre, “Il sorriso della Medusa” sparirà in seguito dagli archivi della Rai; a tutt’oggi su Internet non è reperibile in italiano.
Se da una parte il docufilm gli rimedia un po’ di soldini, dall’altra a Enrico Forti procura la fama di “rompiscatole”. Già gli italiani da quelle parti non sono tutta questa simpatia di persone, se poi ti metti a tirar fuori certe storie… Chiusa la parentesi.
IL PIKE’S HOTEL COME LA FONTANA DI TREVI
Arriviamo alla fine del 1997. Thomas Knott, che è entrato quindi in confidenza con Forti, invita a Miami il suo vecchio amico Anthony Pike, ristabilitosi dalla malattia. Questi arriva e viene presentato a Forti. Dice Knott: “La sai una cosa? Questo vuole vendersi l’hotel di Ibiza”. Ma dai? “Un affare, amico”. Peccato che però all’italiano venga tenuto nascosto un particolare di una certa rilevanza: e cioè che il Pike’s Hotel non è più di proprietà del suo fondatore, ma appartiene per il 95% a una società off-shore con sede nelle isole Jersey e solo il 5% è in realtà trattabile. Fate conto, un po’ come Totò che vuol rifilare la Fontana di Trevi all’ignaro turista.
Purtroppo Enrico Forti non sospetta l’imbroglio e, dopo aver ordinato a Knott di stare fuori dall’affare, considerati i suoi precedenti con la giustizia, va a visionare l’hotel e, a metà gennaio del 1998, firma un compromesso davanti ad un notaio spagnolo, senza sapere che quello che sta acquistando non è l’hotel ma – per usare le parole dello stesso Anthony Pike – un “elefante bianco”, un pacco, insomma.
A metà febbraio, c’è la svolta di tutta la faccenda: l’arrivo a Miami di Dale Pike, la vittima. Attenti: quindici giorni prima, Anthony Pike chiama Enrico Forti e gli chiede di fargli una cortesia. Dale è nei guai (un’altra volta) e deve lasciare la Malesia al più presto. In più non ha un soldo in tasca, se per cortesia Forti gli potesse pagare il biglietto. Enrico tira fuori il portafogli e paga il volo diretto in Spagna. Pochi giorni dopo, una nuova telefonata dell’albergatore, da Madrid. Dice: arrivo a Miami con mio figlio Dale, non è che ci potresti pagare i biglietti? L’italiano paga, senonché il giorno dopo arriva un contr’ordine. Dale Pike arriverà da solo a Miami, giacché il padre ha da fare. Dà appuntamento a Enrico Forti per il mercoledì successivo, 18 febbraio, a New York, pregandolo di ospitare nel frattempo il figliolo a Williams Island.
15 FEBBRAIO 1998. DOMENICA, FATALE DOMENICA
La domenica mattina bussano alla porta di Enrico Forti. È Thomas Knott. Ha saputo (da chi?) dell’arrivo di Dale e si propone di andarlo a prendere. Enrico, conoscendo probabilmente il personaggio, rifiuta l’offerta e si reca da solo all’aeroporto internazionale di Miami. Non era l’unico ospite da prelevare da un aeroporto quel giorno. Alla sera alle 20, infatti, all’aeroporto di Fort Lauderdale (a nord di Miami) sarebbero arrivati da New York il suocero e suoi due figli. Forti però è tranquillo. Di tempo ce n’è in abbondanza. Il volo di Dale Pike è previsto alle 15, ma si verifica un intoppo, un ritardo di quasi due ore. Dale e Enrico si incontrano e lasciano l’aeroporto internazionale attorno alle 18.30.
Dunque – abbiamo detto – arriva il suocero e Enrico non può più ospitare Dale a casa sua. Si offre di trovargli un albergo, ma quello rifiuta e chiede di potersi fermare in una stazione di servizio per comprare le sigarette e fare una telefonata. A Thomas Knott. Quindi torna in auto e chiede di essere accompagnato al ristorante Rusty Pelican, sull’isola di Virginia Key, dove a quanto pare c’è qualcuno che lo sta aspettando. Al contempo lo prega di non dire nulla al padre del suo arrivo, ché ha intenzione di spassarsela un po’. Arrivano, Dale scende e si avvicina ad un tizio al volante di una Lexus bianca. Confabulano un po’, quindi torna da Enrico, si riprende la borsa, e gli dà appuntamento direttamente al giovedì successivo, quando sarebbe giunto in città il padre.
Alle 19.16 Enrico telefona a sua moglie Heather, dicendole di stare andando a prendere il suocero e i bambini. La telefonata viene registrata sulla Rickenbacker Causeway – la striscia di terra che collega Key Biscayne a Miami –, a circa due miglia dal Rusty Pelican. Alle 20, Forti è a Fort Lauderdale.
Il giorno dopo, Dale Pike viene trovato nudo e morto in un boschetto lungo la Sewer Beach, a tre miglia di distanza dal Rusty Pelican – con accanto la carta rilasciata dall’Ufficio Immigrazione dell’aeroporto di Miami, il boarding pass, il pendaglio del Pike’s Hotel, ucciso da due colpi di arma da fuoco alla nuca: una sorta di esecuzione.
Se fosse davvero Enrico l’assassino, avrebbe avuto circa 10-15 minuti per andare a Sewer Beach, eludendo gli sbarramenti e i divieti presenti in quel periodo, giustiziare Dale Pike con due colpi alla nuca, spogliarlo (la camicia insanguinata prova che questa è l’esatta successione), trascinarlo per diverse decine di metri, quindi far sparire i suoi vestiti, la valigia, cancellare le tracce degli pneumatici e prepararsi tra l’altro a mostrarsi calmo, pacifico e rilassato davanti al suocero e ai suoi figli. Oggettivamente l’impresa risulterebbe impossibile anche al criminale più spietato e recidivo.
Il ritrovamento del cadavere. IL MESSAGGIO CIFRATO DELL’ASSASSINO
Ma se non è stato Enrico Forti, chi ha ucciso l’uomo? Thomas Knott? Un amico comune? E perché nessuno considera la pista malese? Dale Pike aveva combinato qualche grosso casino in Oriente: non potrebbe essere – considerata anche la modalità del delitto – trattarsi dunque del classico regolamento di conti? I malesi incazzati lo hanno seguito a Miami oppure hanno incaricato qualche criminale d’importazione e... fine della storia.
Ma poi – scusate – la presenza della carta d’imbarco accanto al cadavere, santo cielo, vi pare che se l’assassino fosse davvero colui che ha appena prelevato la vittima all’aeroporto deponga accanto al cadavere la carta dell’ufficio immigrazione e il boarding pass?! Come a dire: sono stato io, venite a prendermi?
Di contro, se invece, come appare più plausibile, ad ammazzare Pike è stato qualcun altro, ha un sapore sinistramente puerile questo voler indirizzare i sospetti verso Enrico Forti. L’assassino (o gli assassini...) toglie tutto a Dale, vestiti e bagagli, e gli mette la carta dell’aeroporto accanto alla mano sinistra. Poi sparpaglia qua e là altre “tracce”. (Ci mancava solo che ci scrivesse su “Forti: prego arrestare”). Una specie di messaggio cifrato indirizzato alla polizia, la quale viene allertata nel pomeriggio del giorno seguente da David Suchinsky, un surfista che dopo aver scavalcato le recinzioni (dato che l’accesso era impraticabile dalla strada) si è imbattuto nel cadavere.
Giunta sul luogo del delitto, la polizia telefona alla compagnia aerea Iberia, domandando il numero di telefono lasciato dal passeggero, componendolo immediatamente. Il numero è quello del Pike’s Hotel. I poliziotti si fanno passare il direttore, Antonio Fernandez. “Che ci è venuto a fare a Miami, Dale Pike?” Fernandez impiega un secondo a riprendersi dallo choc della notizia, quindi risponde: “Doveva incontrarsi con Enrico Forti (detto Chico) e... con Thomas Knott”. Fernandez non verrà ammesso come testimone al processo.
LA SORPRESA, LA BUGIA O L’INGANNO
Mercoledì 18 febbraio Enrico Forti e Anthony Pike hanno, dunque, un appuntamento a New York a casa di un’amica di quest’ultimo, Jane Fredericks. È proprio alla Fredericks che arriva la telefonata dalla detective Catherine Carter che la informa della morte di Dale Pike. Il padre in quel momento è ancora in volo e verrà informato dopo l’atterraggio.
Nel frattempo Enrico Forti, giunto anch’egli nella Grande Mela, chiama la Fredericks – cercando Tony – e questa informa pure lui della tragedia, consigliandolo di chiamare la detective. A quel punto l’italiano va nel panico. Non riesce più a tenere nella testa, tutte assieme, le cose occorse. Chiede aiuto telefonico all’ex capo della squadra investigativa di Miami, tale Gary Schiaffo, con il quale aveva collaborato durante le riprese de “Il sorriso della Medusa”, scambiandosi dei favori. Quindi prende l’aereo per la Florida, giungendo a Miami prima di Pike. Attende inutilmente l’albergatore nell’area riservata all’uscita passeggeri. Anthony Pike era stato prelevato dalla polizia di Miami e tenuto nascosto al Regency Hotel e il Forti non avrebbe mai potuto incontrarlo.
Giovedì 19, Enrico telefona alla polizia: “Guardate che Tony Pike è irreperibile…”. Chiama una seconda e poi una terza volta, quando la detective Carter gli dà un “appuntamento” in centrale, verso le 20. Forti è preoccupato e non sapendo più che pesci pigliare richiama Schiaffo che lo tranquillizza: “Nessun problema, amico. Una formalità. Non occorre nessun avvocato”.
Così, durante l’incontro al dipartimento – sempre secondo la tesi della difesa, non esistendo le prove di ciò – i detective Carter e Gonzales prendono da una parte Forti e gli confidano che Tony Pike è stato trovato ucciso a New York. (Ma attenzione; facciamo attenzione, adesso. Secondo voi, se Enrico Forti fosse veramente il colpevole, fosse cioè ben cosciente in quel momento di aver ucciso Dale Pike e, al contempo, di non aver ucciso il padre; anzi, di avere la certezza – salvo clamorose ma troppo remote coincidenze – che la morte di Anthony Pike è una balla, avrebbe mentito come poi ha fatto?!) Perché Enrico è proprio questo che fa: mente e mentendo commette il suo errore più grosso. Ma mettiamoci nei suoi panni in quel momento. Se davvero quei due hanno reso l’anima a Nostro Signore, quasi in contemporanea, qualcuno sta cercando di incastrarlo, con la precisa, cinica volontà di sbatterlo in galera e buttare via la chiave. Per questo dichiara di non aver mai visto Dale Pike. Chiunque lo avrebbe fatto. Chiunque non conosca il moralistico rispetto che gli americani nutrono nei confronti della verità: per loro non esistono differenze qualitative tra i diversi tipi di bugia. La piccola bugia detta a fin di bene ha la stessa valenza della più spudorata delle menzogne.
“SIGNORA, SUO MARITO  È UN MAFIOSO, LO SAPEVA?”
Il 20 febbraio, il giorno dopo il primo interrogatorio, Enrico Forti si ripresenta volontariamente dalla polizia per consegnare alcune carte che gli erano state richieste il giorno prima. Di certo non si aspetta quello che gli sta per accadere. Viene arrestato, imputato di truffa e circonvenzione di incapace, e sottoposto ad un interrogatorio di 14 ore. Senza avvocato. Dice: e la Convenzione di Vienna che garantisce l’immediata assistenza legale in caso di arresto di un cittadino in uno Stato diverso dal proprio?! E i principi universali del giusto processo consacrati dal Patto internazionale di New York del 16 dicembre 1966, sottoscritti naturalmente anche dagli U.S.A.? E chi se ne frega… Nella notte, viene portato sul luogo del presunto delitto, ammanettato.
Sempre ammanettato, è trasportato in un ambulatorio per effettuare un prelievo del sangue per confrontare il Dna. Tutto senza che nessuno gli legga i “diritti Miranda”, dato che ufficialmente non è in stato di arresto (ma le manette ce le ha, eccome).
Viene perquisito il suo appartamento. La sua auto pure, grazie all’atto vandalico di un misterioso “barbone”. E le autorità italiane, il Consolato, lo sapete da chi vengono a sapere dell’arresto? Dai giornali. Nove giorni dopo…
Come dire? Sono accadute cose, in questa vicenda, che purtroppo per vari motivi non possono rimanere che congetture. Le raccontiamo prendendole dalla testimonianza di Enrico Forti stesso e di sua moglie. A quest’ultima, i poliziotti raccontano un sacco di menzogne sul conto del marito (“È un mafioso, ha una doppia vita”, ecc.), cosa alle quali, purtroppo, Heather crederà per lungo tempo, fino a quando si accorgerà di essere stata ingannata. Tra l’altro, al momento dell’arresto, i poliziotti strappano davanti alla faccia del sospettato le foto che lo ritraggono, sorridente, assieme ai suoi bambini, gridandogli che non li rivedrà mai più. (Quella perversa previsione si è avverata. Fino ad oggi, almeno.) Di questo animato confronto – manco a dirlo – è sparita ogni traccia, perfino la registrazione della videosorveglianza interna della caserma nessuno sa più dove sia.
In ogni caso, siamo alla fine di febbraio. Enrico Forti e Thomas Knott sono i principali sospettati, ma il tedesco ha un alibi. Un alibi leggerino, ma pur sempre di alibi si tratta (un party nel bilocale di Williams Island, con tanto di inviti…).
Questo per l’accusa di omicidio. Per quella truffa gli investigatori ritengono di avere prove sufficienti per dimostrare che Anthony Pike è stato raggirato da Forti. In realtà, Pike è proprio il raggirante, se così possiamo chiamarlo.
Il 25 febbraio viene arrestato anche Knott, mentre tenta di fuggire da Miami.
Il 3 marzo, Forti viene rilasciato su cauzione, inizialmente viene fissata in dieci milioni di dollari: una cifra record per un caso di truffa che non trova nessuna giustificazione. Due giorni dopo, però, viene commutata (come? perché?) nel blocco dei beni dell’imputato.
Comunque non è questo il problema, dato che Forti viene assolto da tutte le accuse il 9 ottobre 1999. Thomas Knott, al contrario, viene condannato dalla Corte della Florida per truffa ai danni di Anthony Pike, nonché per il possesso di un’arma da sparo dello stesso calibro di quella con cui è stato ucciso Dale Pike...
Pare incredibile, lo so, ma un paio di anni dopo, le parti risulteranno invertite e Thomas Knott volerà verso l’Europa, libero come un fringuello.
Dal giorno del primo arresto all’assoluzione per la truffa passano 20 mesi in cui Forti è sostanzialmente libero. Mesi in cui – fosse stato davvero lui il colpevole, percependo che qualcosa si stava macchinando alle sue spalle – avrebbe potuto senza troppi problemi abbandonare gli States. Non lo fa. Perché? Un’ipotesi: forse perché non è lui il colpevole?
Due giorni dopo l’assoluzione per truffa, proprio la truffa viene usata come movente, allorquando Forti viene arrestato con l’accusa di omicidio volontario di primo grado.
LA DIFESA: UN PATCHWORK CONFUSO E TROPPO TIMIDO
“Il processo? Una formalità”, parola di avvocati difensori. E invece la faccenda si complica. Forti vorrebbe deporre, andare al banco a dire ai membri della giuria cosa è veramente accaduto, cosa quei poliziotti hanno fatto a lui e alla sua famiglia, ma i suoi avvocati difensori (eccolo qui, un altro tasto dolente del “Caso Forti”) gli hanno sconsigliato di esporsi, per evitare un “massacro” a fronte di un’assoluzione praticamente certa… Peccato che per la legge americana, questo atteggiamento (l’assenza dal banco dei testimoni) conceda un vantaggio pazzesco all’accusa: il diritto all’ultima parola. Come far giocare il Barcellona contro la Vigolana, togliendo a quest’ultima tre giocatori più il portiere. Si tratta del primo di una lunga serie di autogol (tanto per restare sulla metafora calcistica) che la difesa realizzerà durante la requisitoria.
Altra cosa assurda, la durata dell’istruttoria: 20 mesi. Un record, considerato che normalmente siamo sui sei mesi. Perché? Non si sa. Forse per cercare quante più prove possibili atte a incastrare l’imputato?
Terza cappellata dei difensori, il conflitto d’interessi che l’avvocato Ira Loewy si porta sul groppone. Da qualche tempo, infatti, lavora come pubblico ministero in un altro caso. Per la Legge americana ciò è motivo di annullamento del processo a meno che l’imputato non si dichiari d’accordo. In seguito, verrà presenta la fotocopia di un’autorizzazione che Enrico Forti avrebbe firmato e concesso a Loewy. Forti dichiarerà più volte di non aver mai visto quel documento e di non averlo tanto meno firmato.
Anthony Pike si presenta in aula sofferente, sorretto platealmente da due badanti-infermiere. (Qualche settimana dopo, due amiche trentine di Forti lo vedranno diciamo “un po’ meno sofferente” nel suo hotel di Ibiza).
Il processo si trascina stancamente per venti giorni, durante i quali la giudice Platzer fa notare alle parti che si sta perdendo troppo tempo in chiacchiere... E ti credo, non ci sono testimoni, impronte prove ecc. ecc. Che processo vogliamo fare? E invece...
UN’ACCUSA DA PREMIO NOBEL. DEL CINISMO
Se mai dovessero istituire un premio Nobel per l’Ars Oratoria, bisognerebbe provvedere subito a premiare il procuratore Reid Rubin. Ma anche nella categoria “cinismo” non sfigurerebbe. D’altra parte basta andarsi a leggere la sua arringa. Stiamo parlando di un prosecutor che è riuscito a convincere una giuria formata da 12 persone della colpevolezza dell’imputato basandosi solo su una “bugia” ritrattata dopo solo 24 ore. Costui è riuscito a mandare all’ergastolo Enrico Forti senza presentare alcuna prova oggettiva che lo collegasse all’omicidio, nessun testimone, nessuna impronta, nessuna arma del delitto, esame del Dna (su un guanto ritrovato accanto al corpo di Pike) negativo. Per non parlare del movente utilizzato: quello relativo alla truffa, accusa dalla quale Forti era stato assolto mesi prima. Un comportamento scorretto, fuori legge, attuato in barba alla cosiddetta Regola Double Jeopardy secondo la quale, se un imputato è già stato assolto da un’accusa, quest’ultima non può essere usata in un altro processo. Ma Reid Rubin, il premio Nobel, non si limita a ciò. Sapendo di avere diritto all’ultima parola, durante l’arringa finale usa il grimaldello dell’accusa per truffa, senza informare la giuria che Enrico Forti da quell’accusa era già stato assolto! Pazzesco, no?
Alla fine arriva la condanna. La giudice Victoria Platzer – che lavorava con Gary Schiaffo nella squadra omicidi all’epoca del caso Cunanan… – chiede alla giuria di pronunciare il verdetto che è – ci crediate o no – il seguente: “Per avere il Forti Enrico, personalmente e/o con altra persona o persone allo stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno con la propria condotta partecipata, e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamente, la morte di Dale Pike...” Che sarebbe come se una mamma dicesse a quel monello del figlio: “Tu hai rubato la marmellata personalmente o con qualcun altro o altri ancora che al momento non conosco e l’idea è stata tua o di qualcun altro o magari tu non c’entri niente ma ti punisco lo stesso”.
Ma il meglio delle proprie capacità sofistiche la giudice Platzer lo dà subito dopo il pronunciamento della giuria popolare, quando esprime il suo verdetto con queste parole (la traduzione è letterale): “La Corte non ha le prove che lei sig. Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ho la sensazione, al di là di ogni dubbio, che lei sia stato l’istigatore del delitto. I suoi complici non sono stati trovati ma lo saranno un giorno e seguiranno il suo destino. Portate quest’uomo al penitenziario di Stato. Lo condanno all’ergastolo senza condizionale”. Sensazione?! Abbiamo letto giusto? Giudice Platzer, lei mi sta mandando a puttane la vita di un uomo sulla base di una... sensazione? Ha un’idea di quello che ha appena detto? No, non certezza, ma sensazione, dal latino sensationem, “modificazione semplicissima dello spirito umano occasionata dall’impressione che fanno sui nervi le cose del mondo esteriore?!”
A volte una parola – da sola – può rivelare più cose di quante si possano immaginare. In Florida, nei pressi di Miami, tra le paludi delle Everglades infestate di voraci coccodrilli, c’è un carcere di massima sicurezza. In quel carcere una cella. In quella cella un uomo, un italiano, vive da dodici anni, dopo aver perso la moglie, i figli, la casa, la libertà. Dopo aver dovuto apprendere della morte per crepacuore di suo padre Aldo. Tutto, diciamo tutto, per una sensazione…
Dice: ma c’è l’appello, e che diamine! Loewy e Bierman si dicono arcisicuri del ribaltamento della sentenza. Invitano addirittura i familiari di Enrico a mettere in fresco una bottiglia di champagne. E invece, l’appello si traforma in una specie di farsa in cui, sorseggiando un caffè, la giudice infila una serie impressionante di “Non è rilevante” alle obiezioni sollevate in primo grado. Tra agenti che ridacchiano e altri imputati di passaggio che transitano davanti alla Corte, pochi minuti ed è tutto finito. Anche la revisione del processo non viene concessa, in violazione all’articolo 14 sul giusto processo, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950.
RICORSI KAFKIANI E MISTERIOSE ARCHIVIAZIONI
E adesso sono passati dodici anni. Non sono pochi. Certo Enrico Forti ha compiuto 52 anni e guardandolo nelle foto recenti, nonostante quel solito lampo di positività negli occhi, tradisce una certa stanchezza. No, non paura, ma semplice sfinimento. Il dover continuare a sostenere la propria innocenza, il pensiero di parenti – su tutti lo zio, Gianni Forti – e amici che stanno sconvolgendo le proprie vite per provare a tirarlo fuori da quel posto, deve affliggerlo. Vorrebbe darsi da fare lui, leggere carte, andare in tv, rispondere ai giornalisti, consultare nuovi avvocati, ma non può fare nulla. Può solo starsene nella sua cella e cercare di sopprimere il senso di colpa per gli affanni che indirettamente sta provocando ai suoi cari. Ecco, forse è proprio questa la sua unica colpa.
Nel corso di dieci anni, per ben cinque volte vengono presentati costosissimi ricorsi (a colpi di 100mila dollari l’uno...) Il primo viene presentato il 26 ottobre 2001. L’udienza viene concessa il successivo 30 aprile. (Attenzione perché qui entriamo veramente nel campo del surreale) Davanti al giudice si presentano i difensori, Bierman e Loewy, e il prosecutor Frank Ingrassia in sostituzione (perché?) del fuoriclasse della parola, Rubin. Loewy ribadisce, uno dietro l’altro, tutti i punti deboli dell’accusa. Lo fa in maniera lucida e decisa. Ingrassia, invece, legge goffamente una memoria di Rubin, mostrando di essere impreparato in maniera imbarazzante. Pare riconoscere perfino alcune debolezze accusatorie sulla prova della sabbia e sulla mancata concessione del processo breve (speed trial). Alla fine viene richiamato dal presidente della Corte che – testuale – fa notare ad Ingrassia che non ha dato nessuna risposta alle evidenze presentate! Quindi, la replica di Loewy si sofferma nuovamente sugli abusi della Procura e sul fatto che l’accusa è inconsistente. Sei settimane dopo, il caso Forti viene archiviato con la conferma della condanna a vita. Senza nessuna motivazione. Più kafkiano di così...
Il secondo ricorso (presentato nel luglio 2004, risposta il 19 ottobre 2006!) viene rifiutato senza discussione né motivazione. Il 9 luglio 2008 viene bocciata la richiesta di riconsiderazione della sentenza inviata alla locale Corte degli Appelli, ovviamente senza spiegazioni. A questo punto, non rimane che rivolgersi alla Corte Suprema della Florida. Per farlo, però, occorre l’opinione scritta dei motivi alla base dell’ultimo rifiuto (...e perché diavolo?! Qui si vede come gli americani non hanno alle spalle nemmeno un anno di diritto romano...). Va bene, poco male, chiediamo che ci spediscano uno straccio di motivazione, in fondo avremo pur diritto di... Niente. La motivazione non viene fornita. E naturalmente manca pure la motivazione della mancata motivazione.
Ultimissima possibilità, la Corte Federale degli Stati Uniti d’America. Il 4 marzo 2009, i legali di Forti presentano una mozione che viene respinta per scadenza dei termini... Insomma, pare che sul caso di Enrico Forti sia stata messa una pietra tombale
LA “VIA” POLITICA: DA AMANDA A CHICO, passando per Frattini
In questi anni di detenzione, Enrico Forti non si è mai sognato di chiedere la grazia per un delitto che lui sostiene di non aver commesso. Altresì, si guarda bene dal chiedere il trasferimento in un carcere italiano. La Convenzione di Strasburgo ne prevede la facoltà, tuttavia i rischi sono davvero molti. Uno su tutti: chi dà a Forti la garanzia che, una volta firmata la richiesta, venga poi accolta? Ma poi perché ammettere, seppur solo implicitamente, una colpa rispetto alla quale sta tentando disperatamente di dimostrare la sua estraneità? La Giustizia americana non gli ha dato certo motivi per conquistarsene la fiducia...
Non resta che la cosiddetta “via” politica. Nei giorni che hanno preceduto la sentenza di assoluzione di Amanda Knox, cittadina americana, in America si è potuto assistere ad una vera a propria mobilitazione in favore della ragazza di Seattle. Ma se andiamo a guardare, già nel dicembre 2009, dopo la condanna in primo grado, la senatrice Maria Cantwell si disse “rattristata per il verdetto” e di avere “seri interrogativi sul funzionamento del sistema giudiziario italiano” e sul fatto che “l’anti-americanismo possa avere inquinato il processo”. La senatrice, che rappresenta lo stato di Washington (dove vive la famiglia Knox), sostenne che “non esistevano prove sufficienti per spingere una giuria imparziale a concludere oltre ogni ragionevole dubbio che Amanda fosse colpevole”.
Da quel giorno, i politici americani hanno esercitato pressioni affinché la signora Clinton in persona si occupasse del caso (e non è per niente escluso che l’ex first lady non ci abbia messo lo zampino).
Atteggiamento completamente diverso quello assunto dalla politica italiana, il cui esponente maggiormente chiamato in causa – il Ministro degli Esteri Franco Frattini – ha mantenuto un basso (bassissimo) profilo rispetto alla questione, scrivendo sul suo blog che «l’America è una grande democrazia e l’unico passo che non possiamo compiere è quello di un’interferenza politica e diplomatica (...). L’unica possibilità che abbiamo è quella di verificare se sussistano nuovi elementi a discarico non emersi e non considerati nella fase del giudizio, elementi che potranno riaprire il caso, valutare nuove prove ed accertare la sua responsabilità o meno». Ciumbia, signor Ministro: di elementi non considerati in fase di giudizio ne abbiamo a decine. Non l’hanno ancora informata i componenti del suo staff?
ENRICO FORTI COME “HURRICANE” Carter?
 Abbiamo citato a inizio articolo il film “Hurricane – Il grido dell’innocenza”, che racconta l’incredibile vicenda del pugile Rubin Carter, per la cui causa si mobilitò mezz’America (Bob Dylan compreso che gli dedicò il celebre brano “Hurricane”, appunto). Ad un certo punto del film, Carter, dopo anni e anni di prigionia, mostra per la prima volta la sua debolezza. Ha tenuto duro a lungo, ricorrendo all’ascetismo religioso, alla meditazione e a qualsiasi altra possibilità che gli impedisse di cedere alla rabbia e all’ingiustizia. C’è, insomma, questa toccante scena in cui Carter chiama i suoi avvocati e confessa di non farcela più.
La paura per Enrico Forti è questa. Che nonostante la fermezza gli anni diventino davvero troppi anche per lui e molli, si riduca a chiedere la Grazia, confessando una colpa che fino ad ora i fatti dicono non sua.
E c’è anche un altro pericolo. Ben più grave. Il pericolo, cioè, che le voci di una imminente revisione del processo giungano con troppo anticipo nel penitenziario delle Everglades. “Qui dentro la vita di un uomo vale cento o duecento dollari al massimo” ha detto più volte Forti... La spada di Damocle che pende sul suo capo è ancora lì, dal primo giorno della sua più che decennale prigionia. Dovesse cadere, saremmo in tanti a dovercene assumere la responsabilità.        
Pino Loperfido © TrentinoMese

 http://www.pinoloperfido.it/files/forti.php


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